31 Dicembre 2019
Questa mattina mi sono recato in stazione come sempre. Vicino alla porta d’ingresso del bar c’era una persona nuova: un barbone. A vederlo così sembrava un barbone come tanti altri. Era seduto su un pezzo di plastica, che fungeva da intercapedine tra lui ed il pavimento, possedeva uno zaino, non proprio pulito, con dentro “delle cose”. Vicino a lui c’era un piccolo trespolo dove passeggiava avanti e indietro un pappagallino, un po’ come fanno i papà davanti alla sala parto, nell’attesa del lieto evento. Il pappagallo salutava con un sonoro “CIAO” tutti quelli che passavano e poi continuava con un “DOVE VAI?”. Attaccato al suo trespolo c’era posizionato un cartello che, tra l’ironico e l’irriverente, c’era scritto: “Spesso gioiamo del silenzio di parole”. Accanto al barbone un altro cartello dove invece era riportata questa frase: ”Vorrei urlare alla solitudine che non mi fa più paura”. Il barbone seduto a terra non aveva certo l’aria di una persona appena uscita da un centro benessere, tuttavia gli occhi emanavano una luce tale, che lo sguardo appariva profondo, sincero e soprattutto leale. A differenza di tanti abitanti della strada, non chiedeva né pietà, né comprensione, né tanto meno l’elemosina, eppure in assenza di qualsiasi piattino o raccoglitore di monete, tanti lasciavano un presente, spesso monetario talvolta alimentare. Quando passai anch’io di fronte il pappagallo, mi salutò calorosamente, come faceva con tutti, chiedendomi naturalmente dove stavo andando. Io guardando il volatile chiacchierone, sorrisi bonariamente ma non potei esimermi dall’incrociare gli occhi verdi di quell’uomo seduto davanti all’ingresso del bar. Un lungo sguardo ci accompagnò. Lungo come avviene tra due pistoleri nei film western di Sergio Leone. Due sguardi tra uomini che si capiscono, o si conoscono, o si intendono. Guardare troppo insistentemente una persona però, può creare imbarazzo e io dopo qualche istante abbassai lo sguardo. Quando arrivai al mio solito posto, mi voltai di scatto per vedere se quell’uomo mi stava ancora osservando. Sì, continuava a farlo. Feci finta di niente ma poi la mia curiosità mi portò ad alzarmi di scatto. Mi diressi da lui e gli chiesi brutalmente: “Ma noi ci conosciamo?”. Lui mi guardò e mi disse: ”Lei è il professor Luigi detto “Gigi” che insegnava italiano, latino e letteratura?”. “Sì, sono io.”, risposi. Lei sicuramente non si ricorderà di me visto anche la trasformazione che ho subito, ma io sono Sergio Poletti. “Sergio Poletti!” Io di alunni ne ho visti tanti, li ho visti crescere trasformarsi, diventare uomini e donne. Tanti non li riconosco più. “L’aiuto io professore”. Liceo Scientifico di Castelfranco Veneto classe terza C. Classe turbolenta, ma allegra, con personaggi intelligenti, ma purtroppo casinisti. Il gruppo degli insubordinati. Era composto dal sottoscritto, da Piero detto “Pippo”, da Sandro e da Giovanni detto “Nane.” “Si, ora ricordo, eravate degli insubordinati ma eleganti nei vostri scherzi e nelle vostre rimostranze. Diciamo che eravate goliardici nelle vostre espressioni!E tu sei Sergio!”. Senza aggiungere altro, mi tornò alla mente questo ragazzo intelligente che voleva apparire diverso per nascondere il disagio nel confronti del divorzio dei suoi ricchi genitori. Ogni volta che in classe si parlava di regole, principi, famiglia ed apparenze, lui interveniva sproloquiando. Esaltava un momento l’anarchia, quando gli faceva comodo, il comunismo per altre cause, il movimento sessantottino in altre occasioni, sino ad arrivare a riesumare gli epicurei. Insomma il classico bastian contrario.